DIABETE: DISPONIBILE IN ITALIA NUOVO SISTEMA IBRIDO AD ANSA CHIUSA PER SOMMINISTRAZIONE AUTOMATICA DI INSULINA.

Grazie ad un algoritmo che auto-apprende, a un microinfusore dall’elevata accuratezza di erogazione e un sensore in grado di misurare ogni 5 minuti i livelli di glicemia, DBLG1 System è in grado di somministrare autonomamente i corretti quantitativi di insulina aumentando il tempo in cui il paziente riesce a stare in un range glicemico ottimale.

Il diabete è una malattia che condiziona la vita quotidiana delle persone che ne soffrono e necessita di un monitoraggio costante e di continue attenzioni terapeutiche. La difficile gestione di questa malattia e, in particolare, della terapia insulinica, fa sì che oltre 7 persone su 10 con diabete di tipo 1 non raggiungano un buon controllo glicemico.1

“Nonostante i progressi nelle terapie, con insuline sempre più performanti, e dispositivi con tecnologie avanzate, solo il 30 per cento delle persone con diabete di tipo 1 ha valori di emoglobina glicata inferiori al 7 per cento secondo i dati degli Annali 2020 e tra quelli che non raggiungono il target desiderato, ben il 35 per cento è francamente scompensato, con valori di emoglobina glicata superiori a 8 per cento”, dice Paola Ponzani, Dirigente Medico Responsabile della SSD Diabetologia e Malattie Metaboliche ASL 4 Chiavarese (GE).

Da oggi, è disponibile anche in Italia, per medici e persone con diabete di tipo 1, DBLG1 System, un nuovo sistema ibrido ad ansa chiusa per la somministrazione automatica di insulina (AID), che permette di agevolare significativamente la gestione del diabete migliorando i risultati clinici, grazie all’integrazione del microinfusore Accu-Chek Insight, del sistema di monitoraggio in continuo del glucosio Dexcom G6 e dall’algoritmo DBLG1 inserito in un dispositivo portatile.

“I sistemi ibridi ad ansa chiusa segnano un importante passo avanti nell’evoluzione verso il pancreas artificiale, permettendo l’erogazione automatica di insulina giorno e notte, in risposta ai valori glicemici riscontrati dal sensore, con la richiesta di intervento del paziente solo al momento del pasto, quando deve inserire la quantità di carboidrati assunti. Da un punto di vista clinico, questi sistemi, basati sull’utilizzo di algoritmi di intelligenza artificiale, permettono di mantenere il paziente più a lungo all’interno del range glicemico considerato a target, ossia tra 70 e 180 mg/dl, di ridurre la variabilità glicemica e, soprattutto, le ipoglicemie. Per una persona con diabete questo vuol dire un miglioramento del proprio benessere e della qualità di vita, sia per il minor rischio di ipoglicemia sia per una riduzione del peso che comporta la gestione della propria malattia, ma nel lungo termine implica anche una riduzione del rischio di complicanze grazie al miglior compenso metabolico”, spiega Ponzani.

“Grazie ai tre elementi che compongono DBLG1 System, l’insulina viene erogata automaticamente attraverso il microinfusore sulla base delle elaborazioni fatte in tempo reale dall’algoritmo che riceve le misurazioni glicemiche dal sensore e sulla base dei dati inseriti dal paziente. L’algoritmo DBLG1 calcola la quantità corretta di insulina da erogare, regola la velocità dell’insulina basale o somministra un bolo di correzione automatico quando necessario – spiega Serena Ferrari, Marketing Director Roche Diabetes Care Italy. DBLG1 System ha dimostrato di aumentare il tempo che una persona con diabete rimane nel range glicemico corretto, rispetto ad un sistema senza questo tipo di algoritmo, promettendo un significativo miglioramento della qualità di vita. Inoltre, l’algoritmo è dotato di un sistema di machine learning, ovvero che impara dagli eventi che ricorrono ad esempio in concomitanza dei pasti e dell’attività fisica e che gli permette di prevedere l’andamento glicemico suggerendo le dovute correzioni di insulina”.

Il sistema, oltre ad essere personalizzabile attraverso parametri individuati insieme al proprio medico, permette di trasmettere e memorizzare le misurazioni effettuate, sulla piattaforma web YourLoops, dove sia il medico sia il paziente possono visualizzare i dati, permettendo così un’ottimizzazione dei tempi di visita e la possibilità di gestione del paziente da remoto.

Gli studi clinici sul DBLG1 – continua Paola Ponzani – hanno mostrato risultati molto promettenti. In particolare, si è osservato un aumento del 10 per cento che equivale a circa 2 ore al giorno, del tempo trascorso dal paziente nel range target e una riduzione del 2 per cento del tempo trascorso in ipoglicemia, ossia 30 minuti in meno al giorno. Nella mia esperienza questi risultati confermano l’impatto positivo che questo sistema ha sulla qualità di vita dei miei pazienti”.

“DBLG1 System è il primo esempio ma non l’unico, della Vision di Roche Diabetes Care basata sull’implementazione dell’integrated Personalised Diabetes Management (iPDM), che permette di personalizzare la gestione del diabete sulle vere necessità dei pazienti, in modo da offrire loro un reale sollievo dalla malattia attraverso lo sviluppo di dispositivi, servizi e prodotti digitali messi in connessione tra loro – dichiara Rodrigo Diaz de Vivar Wacher, Amministratore Delegato Roche Diabetes Care Italy. L’approccio olistico dell’iPDM si basa su un ecosistema aperto che promuove la collaborazione con tutti gli stakeholder e che consente di unire le nostre soluzioni e le soluzioni dei nostri partner. In questo, DBGL1 System è il frutto della partnership tra diverse aziende ed è un chiaro segnale del nostro impegno a collaborare apertamente per poter perseguire questa Vision legata all’iPDM. Come Roche siamo, quindi, orgogliosi di poterci impegnare quotidianamente in progetti così ambiziosi come DBLG1 System che vogliono portare un reale sollievo a tutte le persone con diabete, ovunque esse siano”.

DBLG1 System

Il DBLG1 System è un sistema ibrido ad ansa chiusa per la somministrazione automatizzata di insulina accurato, semplice e pratico, indicato per persone con diabete di tipo 1 con età superiore ai 18 anni, con un fabbisogno insulinico totale giornaliero (TDD) inferiore a 90 unità e in terapia con insulina ad azione rapida 100 UI/ml.

Il sistema, costituito da tre componenti, monitora in continuo il valore il glucosio nel sangue e calcola la quantità di insulina necessaria rilasciandola in modo automatico. È definito ibrido poiché i pazienti devono inserire manualmente le informazioni sui pasti e l’attività fisica.

Le tre componenti sono:

  1. Dexcom G6: il dispositivo che può essere posizionato in diverse aree del corpo e attraverso il sensore posto al di sotto della cute, misura in continuo i livelli di glucosio (Continuous Glucose Monitoring – CGM), inviando ogni cinque minuti il valore rilevato al dispositivo DBLG1 tramite Bluetooth Low Energy (BLE). Il sensore non necessita di calibrazioni.
  2. Microinfusore Accu-Chek Insight: sistema automatizzato e portatile per la somministrazione sottocutanea di insulina con cartuccia pre-riempita dall’elevata accuratezza di erogazione.
  3. Dispositivo portatile DBLG1: l’algoritmo è inserito in un dispositivo portatile dedicato che collega il sensore e il microinfusore, automatizzando le decisioni relative all’erogazione di insulina. Necessita di una semplice configurazione iniziale con solo quattro informazioni specifiche definite dal diabetologo. Grazie alla modalità loop, i dati raccolti dal sensore sono elaborati dall’algoritmo predittivo ogni cinque minuti, definendo in questo modo automaticamente la quantità di insulina basale e i boli di correzione, che verranno erogati dal microinfusore senza che il paziente debba intervenire. È necessario che il paziente inserisca giornalmente i pasti e l’attività fisica affinché l’algoritmo possa personalizzare sempre più la terapia insulinica. Infatti, l’algoritmo, grazie alla Machine Learning, impara giorno dopo giorno, permettendo così un’ottimizzazione della terapia insulinica sulla base di eventi ricorrenti. In caso di necessità, la modalità loop può essere disattivata momentaneamente e, in quel caso, il sistema erogherà il profilo basale di sicurezza, ma tutti i boli (correttivi e prandiali) potranno essere inviati manualmente dal dispositivo DBLG1 senza agire sul microinfusore.

I dati raccolti e trasmessi dal DBLG1 System sono memorizzati sulla piattaforma web YourLoops, accessibile da PC e da smartphone, che fornisce una visione completa e in tempo reale al paziente e, se necessario, anche al medico.

Grazie alla SIM card con traffico dati precaricata nel dispositivo portatile DBLG1 non è necessario effettuare alcun scarico dei dati, contribuendo così all’ottimizzazione dei tempi di visita e alla facilitazione della gestione da remoto.

DBLG1 System contribuisce a minimizzare il rischio di ipoglicemia grazie all’intervento predittivo sulla riduzione della basale, fino alla sua eventuale sospensione e anche grazie alle raccomandazioni automatiche di carboidrati di emergenza prima ancora di un eventuale episodio ipoglicemico. Inoltre, favorisce l’ottimizzazione del tempo trascorso in normo-glicemia (Time In Range – TIR), uno dei principali obiettivi del trattamento del diabete di Tipo 1.

Grazie a ciò, il DBLG1 System semplifica la gestione quotidiana del diabete potendo favorire una migliore qualità di vita.

HealthCom Consulting

Roche Diabetes Care Italy

Settimana mondiale della tiroide dal 24 al 30 maggio.

TIROIDE E PANDEMIA DA COVID: FACCIAMO CHIAREZZA

6 MILIONI GLI ITALIANI CON PROBLEMI

OCCHIO ALLA TIROIDE: ORBITOPATIA O MORBO DI BASEDOW

PAZIENTI IN CERCA DELLA PROPRIA IDENTITÀ

“Con la pandemia è ancora più importante mantenere in buona salute la tiroide rivolgendosi al proprio medico senza trascurare alcun campanello di allarme”, spiega Luca Chiovato, Presidente Associazione Italiana della Tiroide, AIT e coordinatore e responsabile scientifico della Settimana Mondiale della Tiroide. “Questa ghiandola svolge importanti funzioni per il nostro organismo come la regolazione del metabolismo, il controllo del ritmo cardiaco, la forza muscolare e il corretto funzionamento del sistema nervoso centrale e periferico. Per converso, la malattia da Covid-19 può alterare la funzione tiroidea creando ulteriori problemi diagnostici e terapeutici. Per questo il tema scelto per la Settimana Mondiale della Tiroide 2021 presentata oggi con il patrocinio dell’Istituto Superiore di Sanità, ISS è ‘TIROIDE E PANDEMIA DA COVID’ per cercare di dare risposta alle tante domande che le persone con una malattia tiroidea si fanno in questo periodo e individuare quali siano le patologie tiroidee che possano rendere il paziente più ‘fragile’ nei confronti della malattia da Sars-CoV2. Il principale obiettivo della Settimana è sensibilizzare la popolazione in merito ai problemi connessi alle malattie della tiroide e alla loro prevenzione: sono infatti oltre sei milioni gli italiani che soffrono di un problema a questa ghiandola così fondamentale per il buon funzionamento di tutto il nostro corpo”.

La Settimana Mondiale della Tiroide 2021, che si svolgerà dal 24 al 30 maggio, è promossa dalle principali società scientifiche endocrinologiche, mediche e chirurgiche, quali l’Associazione Italiana della Tiroide  – AIT,  la Società Italiana di Endocrinologia – SIE, l’Associazione Medici Endocrinologi – AME, la Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica – SIEDP, l’Associazione Italiana Medici Nucleari – AIMN, la Società Italiana Unitaria di Endocrino Chirurgia – SIUEC, la Società Italiana di Gerontologia e Geriatria – SIGG, insieme al Comitato delle Associazioni dei Pazienti Endocrini – CAPE e il supporto della European Thyroid Association-ETA ed è sostenuta con un contributo incondizionato da Ibsa Farmaceutici Italia, Merck Serono e Eisai.

“Per i pazienti con morbo di Basedow, la pandemia ha rappresentato un’ulteriore difficoltà in un percorso già ad ostacoli. Il morbo di Basedow si manifesta con un eccesso di ormoni tiroidei e il processo infiammatorio che ne è la causa può estendersi anche all’orbita causando il quadro clinico comunemente noto come ‘esoftalmo’ “spiega Francesco Frasca, Rappresentante della European Thyroid Association, ETA. “In questi casi bisogna fare molta attenzione anche alla vaccinazione anti- Covid-19 perché la terapia tipica dell’orbitopatia Basedowiana, i cortisonici ad alte dosi per via endovenosa, può vanificare l’effetto del vaccino se questo è somministrato durante il ciclo terapeutico. La cura dell’ipertiroidismo causato dal morbo di Basedow richiede poi controlli clinici frequenti per aggiustare la terapia che, durante le fasi più acute della pandemia, sono stati più difficili da attuare sia per l’impegno degli endocrinologi nell’emergenza Covid, sia per le difficoltà di accesso ai servizi ospedalieri. Per assicurare la cura dei pazienti si è fatto ricorso alla telemedicina nelle sue varie forme e, talora, all’utilizzo di schemi terapeutici, come quello basato sulla contemporanea somministrazione di farmaci anti-tiroidei ad alta dose e tiroxina, che consentono controlli clinici meno ravvicinati”.

“Il paziente con orbitopatia di Basedow”, spiega Emma Bernini, Presidente dell’Associazione Basedowiani e Tiroidei, “è un paziente molto fragile, spesso gravato da ritardi diagnostici e terapeutici a causa della complessità della sua malattia che richiede il supporto di un team medico multidisciplinare (endocrinologo, oculista, radiologo-radioterapista, chirurgo orbitario, chirurgo plastico). In questi pazienti, la maggior parte dei quali sono donne, il danno non è soltanto funzionale sino, nei casi più gravi, alla perdita della vista, ma anche estetico, a causa della sporgenza degli occhi e alla conseguente deformazioni dei tratti del volto. Ciò comporta una dolorosa perdita di identità che si aggiunge alle manifestazioni tipiche della malattia. Una volta controllato l’ipertiroidismo e il processo infiammatorio, la chirurgia “ricostruttiva” dello sguardo e del volto deve quindi essere considerata un irrinunciabile completamento della cura. È quindi auspicabile che il preannunciato potenziamento del servizio sanitario nazionale porti alla creazione di questi team multidisciplinari in sempre più ospedali. La pandemia ci ha infatti insegnato come siano difficili i viaggi della speranza nei pochi centri specializzati spesso presenti in regioni lontane”.

“La pandemia da Covid-19 ha sollevato ulteriori quesiti in relazione al trattamento dei pazienti con patologia oncologica tiroidea, soprattutto nei casi di tumori più aggressivi o avanzati che richiedano farmaci di ultima generazione”, afferma Franco Grimaldi, Presidente Associazione Medici Endocrinologi, AME “e, al fine di ridurre il rischio di contagio nelle strutture ospedaliere, vengono raccomandati per questi pazienti percorsi di diagnosi e cura protetti. In particolare, nei pazienti con carcinoma tiroideo avanzato e in terapia con gli inibitori delle Tirosin-kinasi (TKI) bisogna considerare alcuni importanti aspetti: se questi vengono colpiti da malattia infettiva Covid-19 devono essere considerati pazienti fragili e con un maggior rischio di esiti negativi, compresa la possibilità che l’infezione possa aggravare ulteriormente gli effetti collaterali dei TKI. Questi pazienti inoltre richiedono un continuo monitoraggio clinico, biochimico e strumentale. In ambito pandemico la telemedicina ha svolto un importante un ruolo di supporto evitando l’accesso del paziente negli ospedali e riducendo così il rischio di contagio.  Contestualmente è stato possibile assicurare il supporto necessario per controllare gli effetti collaterali e ottenere l’aderenza alla terapia. Ai pazienti in trattamento attivo deve essere offerta la vaccinazione SARS-CoV2. Quando possibile, la somministrazione del vaccino deve essere eseguita prima dell’inizio della terapia oncologica”.

“La tiroidite di Hashimoto, molto frequente soprattutto nelle donne, pur essendo di natura autoimmune, non è una malattia sistemica e non richiede per il suo trattamento farmaci immunosoppressori; quindi, non espone chi ne è affetto ad un più alto rischio di sviluppare una malattia grave da Covid-19”, continua Francesco Giorgino, Presidente Società Italiana di Endocrinologia, SIE. “Fanno eccezione a questa regola i casi in cui la tiroidite di Hashimoto si associa a due malattie endocrine che più gravemente impegnano l’organismo e il cui trattamento è molto più complesso: il diabete mellito di tipo 1, cioè quello che solitamente colpisce i bambini, i ragazzi e i giovani adulti ed è insulino-dipendente, e la malattia di Addison, che compromette un asse endocrino critico per la sopravvivenza in caso di malattie gravi intercorrenti come quella da Covid-19. Questi pazienti sono considerati veramente fragili e, giustamente, hanno una priorità per la vaccinazione utilizzando le formulazioni a RNA che assicurano una maggiore protezione. Lo stesso dicasi per l’associazione con altre malattie autoimmuni sistemiche come il lupus.  Quindi, la buona notizia è che, salvo i casi associati a patologie autoimmuni più gravi o sistemiche, non sussiste alcun valido motivo per ritenere fragili nei confronti della malattia da Covid-19 i pazienti affetti da tiroidite di Hashimoto, anche quando questi siano in terapia con tiroxina per curare il loro ipotiroidismo”. 

“Rassicuranti sono i dati, ad ora disponibili, sulla popolazione pediatrica affetta da tireopatia come ipotiroidismo congenito o acquisito e ipertiroidismo.  Non emerge infatti un maggior rischio di contrarre l’infezione da Sars-Cov2, né che questi pazienti possano avere una prognosi peggiore in caso di infezione”, afferma Maria Cristina Vigone, Segretario generale Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica, SIEDP. “Però i pazienti con funzionalità tiroidea scompensata, soprattutto in caso di ipertiroidismo, pur non essendo più suscettibili all’infezione da Sars-Cov2, possono avere maggiori complicanze in caso di infezioni. Per questo motivo, in tutti i centri di endocrinologia pediatrica, è stato fatto un grande sforzo per garantire la continuità assistenziale con visite periodiche programmate e, nei casi in cui questo non è stato possibile, attivando modalità alternative come consulenze telefoniche, video-consulenze e servizi di telemedicina. Lo screening dell’ipotiroidismo congenito non ha subito interruzioni o ritardi, così come la cura dei neonati affetti da questa patologia”.

“La malattia da Covid-19 si è rivelata particolarmente aggressiva e con elevata mortalità nei pazienti anziani e soprattutto negli ultraottantenni”, precisa Fabio Monzani, Rappresentante Società Italiana di Gerontologia e Geriatria, SIGG. “La polmonite da Covid-19 si associa ad un quadro di alterata risposta immunitaria che determina la liberazione massiva nel sangue di citochine infiammatorie, responsabili a loro volta di alterazioni dell’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide con lo sviluppo della cosiddetta sindrome del malato eutiroideo o sindrome con bassa T3. Dati preliminari ottenuti da un registro nazionale elaborato sotto l’egida della SIGG documentano una prevalenza particolarmente elevata della sindrome del malato eutiroideo, superiore al 50 per cento nei pazienti anziani ricoverati. La comparsa di questo quadro, pur rappresentando una difesa dell’organismo in caso di malattie gravi, ha un valoro prognostico negativo perché si associa ad una maggiore mortalità”.

“L’attuale periodo pandemico, che si sta protraendo da oltre un anno, ha ridotto il ricorso da parte dei pazienti ai programmi di prevenzione e ai controlli periodici sia per quanto riguarda le patologie tiroidee benigne sia, e questo è più preoccupante, per quelle maligne”, continua Celestino Pio Lombardi, Presidente Società Italiana Unitaria di Endocrino Chirurgia, SIUEC. “La paura di ‘andare in ospedale’ per visite e esami ambulatoriali, il contingentamento degli appuntamenti e, in molti casi, la temporanea sospensione dei servizi o la trasformazione dei reparti per ricoveri ‘Covid’, ha causato sia ritardi diagnostici, sia l’allungamento dei tempi per effettuare interventi di tiroidectomia, spesso necessari. Il rischio, in caso di noduli tiroidei tumorali, è l’aumento di dimensioni che, non solo può peggiorare il successivo decorso, ma può rendere impossibile il ricorso alla chirurgia tiroidea mininvasiva e più conservativa, con conseguenze post-operatorie ed estetiche talvolta importanti. La nuova sfida è quindi ‘recuperare il tempo perduto’ intensificando l’attività dei centri di chirurgia endocrina”.

“La medicina nucleare interviene nelle malattie della tiroide non solo per la diagnosi, ma, soprattutto, per la terapia con iodio radioattivo dell’ipertiroidismo e dei tumori della tiroide, una volta trattati chirurgicamente”, afferma Maria Cristina Marzola, Consigliere Associazione Italiana di Medicina Nucleare, AIMN “Da un’analisi eseguita dal gruppo Giovani di AIMN è emerso che, nel corso della pandemia si è verificata una riduzione di tutte le prestazioni di Medicina Nucleare.  Il 19% circa di questa perdita riguarda prestazioni terapeutiche, nel 50% e più dei casi rappresentate dalla terapia con iodio radioattivo per il carcinoma della tiroide. Questo è dipeso sia dalla riduzione degli interventi chirurgici sulla tiroide, come già sottolineato dal Collega Lombardi, sia dalla possibilità, condivisa anche in ambito internazionale, di posticipare di qualche mese la terapia con iodio radioattivo nei casi di carcinoma differenziato della tiroide a basso rischio. Contestualmente, i Centri di Medicina Nucleare hanno innalzato i livelli di protezione e isolamento dei pazienti per evitare che chi avesse assunto lo iodio radioattivo a scopo terapeutico fosse infettato dal virus”.

“La qualità della relazione e della comunicazione tra medico e paziente è un fattore di grande importanza per indirizzare il percorso diagnostico e terapeutico e anche per il buon esito della cura”, conclude Anna Maria Biancifiori, Presidente Comitato delle Associazioni dei Pazienti Endocrini, CAPE. “I pazienti presentano bisogni di contatto, di relazione e di dialogo anche nelle situazioni più compromesse e i curanti, sotto il pesante carico lavorativo imposto dalla pandemia, non sempre hanno avuto le risorse e il tempo per rispondere a questi bisogni. Indubbiamente, le cure hanno subito un rallentamento a causa della pandemia da Covid-19: molti interventi chirurgici sono stati rimandati, la paura del virus ha dissuaso alcuni pazienti dal recarsi in ospedale per i normali controlli e anche per le terapie. Nel contempo, le liste di attesa si sono notevolmente allungate a causa del carico di lavoro delle strutture ospedaliere. L’attenzione a tutte le patologie, in particolare a quelle oncologiche, deve tornare al centro dell’agenda di Governo, dal momento che gli ultimi dati paventano il rischio che nei prossimi anni la mortalità dei pazienti colpiti da tumore aumenti del 20% circa in conseguenza della pandemia”.

In Italia l’andamento dell’epidemia non consente ancora di organizzare le consuete iniziative locali di prevenzione e informazione. Attività di informazione e sensibilizzazione verranno quindi veicolate attraverso la pagina Facebook dedicata “Settimana Mondiale della Tiroide” e il sito www.settimanamondialedellatiroide.it.

Ufficio StampaHealthCom Consulting

Diabete di tipo 2. Individuato il meccanismo alla base: le cellule ‘tartaruga’. Lo studio su JCI.

Lo studio, firmato dai ricercatori della Fondazione Policlinico Gemelli Irccs – Università Cattolica, dimostra che solo i pazienti che hanno un’alterazione nella prima fase di secrezione insulinica (pazienti con cellule ‘tartaruga’), vanno incontro alla comparsa di diabete di tipo 2. Chi ha invece cellule produttrici di insulina ‘lepre’, anche dopo l’asportazione di metà pancreas, non diventa diabetico. Questa ricerca ha permesso di individuare un difetto ‘chiave’ per lo sviluppo del diabete di tipo 2, ora pubblicato sul Journal of Clinical Investigation.

Seguire da vicino la traiettoria del diabete di tipo 2, per comprendere quale sia il fattore ‘X’ alla base della sua comparsa, è un filone di ricerca di non poco conto, alla luce dei 700 milioni di persone affette da questa condizione nel mondo. Per questo suscita attenzione uno studio pubblicato su Journal of Clinical Investigation (JCI) realizzato grazie alla collaborazione tra il gruppo del professor Andrea Giaccari, Responsabile del Centro per le Malattie Endocrine e Metaboliche Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e professore associato di Endocrinologia, Università Cattolica, campus di Roma, e quello del professor Sergio Alfieri, Direttore del Centro Chirurgico del Pancreas della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e Ordinario di Chirurgia Generale all’Università Cattolica.

La ricerca ha consentito di dimostrare che per lo sviluppo del diabete di tipo 2 è molto più importante una cattiva funzionalità delle cellule beta del pancreas (quelle che producono insulina), che non un’improvvisa riduzione del loro numero, come quella che si determina a seguito di un intervento di rimozione parziale del pancreas (pancreasectomia parziale), che dimezza il patrimonio di cellule beta. E la disfunzione che può determinare la comparsa di diabete è una rallentata secrezione di insulina in risposta all’aumento della glicemia da parte di cellule beta ‘tartaruga’, quella che gli esperti chiamano alterazione della prima fase di secrezione insulinica.
“Nella storia naturale della comparsa del diabete di tipo 2 – spiega in una nota il primo autore, la dottoressa Teresa Mezza, ricercatrice in Endocrinologia, UOC Endocrinologia e Diabetologia del Gemelli diretta dal professor Alfredo Pontecorvi – insulino-resistenza e deficit di secrezione di insulina si modificano continuamente nel tempo, ed è impossibile capire quale delle due variabili sia più importante. Con l’intervento chirurgico modifichiamo sperimentalmente solo una delle due variabili, nello stesso identico modo in tutti i pazienti. Con un intervento di pancreasectomia parziale, in termini di evoluzione della malattia diabetica, è un po’ come fare in due mesi quello che la natura fa nell’arco 20 anni”.

Gli interventi chirurgici stanno insegnando molto sulla genesi del diabete; questo studio dimostra che, anche asportando mezzo pancreas a un paziente che non ha insulino-resistenza (cioè non è sovrappeso/obeso), né deficit di secrezione di insulina, quel soggetto non diventerà diabetico. Ai fini del mantenimento di una buona glicemia dunque, non conta quanto pancreas viene rimosso, ma che quello che resta funzioni bene.

“L’innovatività di questo filone di ricerca – spiega il professor Andrea Giaccari, autore senior dello studio – risiede soprattutto nel non studiare persone che hanno già il diabete, ma persone che sono a rischio di svilupparlo, confrontando dati in vitro e in vivo e cercando di capirne i meccanismi. Questo è possibile solo lavorando in un grande Policlinico come il Gemelli, al fianco di una eccellenza nella chirurgia del pancreas come quella diretta dal professor Alfieri”.

La ricerca pubblicata su JCI ha coinvolto 78 pazienti candidati a intervento di duodeno-pancreasectomia, che sono stati sottoposti a test da carico di glucosio (OGTT) e a clamp iperglicemico, prima e dopo l’intervento per andare a valutare l’effetto ‘acuto’ della riduzione delle cellule beta pancreatiche, sulla comparsa di diabete. L’asportazione parziale del pancreas (duodeno-pancreasectomia) dimezza infatti il ‘corredo’ di cellule beta pancreatiche, produttrici di insulina, che i pazienti hanno a disposizione.

I risultati di questo studio suggeriscono che, a determinare la comparsa di diabete, sarebbe in particolare l’incapacità delle cellule beta di reagire prontamente con la secrezione di insulina all’aumento di glicemia che si verifica dopo un pasto (difetto della prima fase rapida di secrezione insulinica). E dunque, i soggetti portatori di queste cellule beta dai ‘riflessi’ rallentati (cellule ‘tartaruga’) sono quelli più predisposti a diventare diabetici. Una predisposizione questa che si ‘annida’ nelle pieghe del Dna; sono stati infatti individuati almeno dieci geni ‘tartaruga’ in grado di ‘intorpidire’ la secrezione insulinica da parte delle cellule beta.

Un fattore fondamentale per il determinismo del diabete di tipo 2 è dunque l’incapacità delle cellule beta di secernere insulina in maniera veloce; chi ha cellule dai riflessi ‘rapidi’ (cellule ‘lepre’) è protetto dal diabete, chi invece è portatore di cellule beta ‘lente’ (cellule ‘tartaruga’) a rispondere alle variazioni di glicemia, più facilmente andrà incontro al diabete in caso di riduzione del numero delle cellule produttrici di insulina.

E la pandemia di obesità che affligge il mondo è un grande ‘rivelatore’ dei soggetti portatori di queste cellule dai riflessi ‘lenti’, perché l’obesità mette in campo un altro importante fattore di rischio per il diabete di tipo 2, l’insulino-resistenza, cioè l’incapacità di tessuti e organi bersaglio dell’insulina di rispondere ai comandi di questo ormone, per superare la quale le cellule beta devono produrre sempre più insulina.

Fonte